Tratto dal Corriere.it
Il tema della diversificazione, intesa come elemento utile a ridurre i rischi dell’investimento, non è ancora molto percepito dai risparmiatori. Per molti di essi diversificare significa semplicemente avere più prodotti in portafoglio o suddividere il capitale tra più intermediari con l’aspettativa di accedere a soluzioni differenziate.
Nella mia attività mi capita spesso di analizzare portafogli concentrati sull’Italia, con azioni nostrane, obbligazioni bancarie (magari del tipo collocate allo sportello), Titoli di Stato, polizze vita e magari qualche fondo comune pure molto esposto al “Bel paese”. In altri casi l’investimento in una moltitudine di fondi di diversi gestori garantisce un’esposizione geografica varia, ma la concentrazione si riferisce in questi casi alla classe di attivo (azioni o obbligazioni) e allo stile gestionale perciò, malgrado la diversa etichetta degli strumenti, si è esposti sostanzialmente al medesimo andamento.
Se dall’analisi risulta una scarsa diversificazione (ossia se i diversi prodotti sono molto legati tra loro), consiglio l’inserimento di strumenti poco correlati tra loro. E grazie all’innovazione finanziaria (quella a fin di bene si intende…) oggi è possibile anche per i piccoli risparmiatori con qualche migliaio di Euro accedere senza problemi a soluzioni diversificate che riducono le oscillazioni di valore dei propri investimenti e l’impatto negativo di possibili fallimenti.
Una cosa fondamentale da capire è che diversificare, ad esempio in valute estere, nella volatilità dei mercato azionari, nei beni reali, nelle strategie alternative, ecc. potrebbe rappresentare un costo in uno scenario positivo per i mercati finanziari, ma è il prezzo da pagare per avere un po’ di protezione da sfruttare quando le cose vanno male. Insomma anche in finanza vale il vecchio adagio per cui “non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca”.
Cosa non fare:
Cosa fare:
Nell’ultimo decennio i risparmiatori italiani hanno dovuto fare i conti con le crisi economiche e finanziarie scaturite dalla bolla tecnologica prima e da quella immobiliare poi, e con gli scandali e i crack di Parmalat, Cirio, Argentina e Lehman Brothers, solo per citare i casi più eclatanti.
In conseguenza di ciò la fiducia e la credibilità delle famiglie italiane nei confronti degli intermediari finanziari tradizionali (Banche, Società di Gestione del Risparmio, compagnie di Assicurazione, ecc.) hanno subito dei gravi contraccolpi. Questa situazione ha favorito la diffusione anche in Italia, sul modello dei paesi anglosassoni, della figura del consulente finanziario indipendente, e il successo di questo blog tra i risparmiatori ne è una dimostrazione.
Alcuni tra gli intermediari tradizionali hanno capito i vantaggi che possono derivare dal proporsi nelle vesti di consulenti piuttosto che di distributori di prodotti e si stanno adeguando, ma è opportuno fare chiarezza sul tipo di consulenza offerta per non ingenerare delle incomprensioni nei risparmiatori stessi, soprattutto se, come nel caso di Fineco, si usa il termine indipendente come riporta testualmente il sito internet della società: “In Fineco puoi scegliere se investire da solo o con l’aiuto di un Personal Financial Adviser. Un professionista autonomo, libero e indipendente, senza vincoli di scelta, in grado di poterti consigliare i migliori fondi di tutte le marche. Farsi guidare da chi ha le mani libere è molto meglio”
E’ del tutto lecito che anche questi soggetti decidano di passare dalla mera vendita di prodotti alla consulenza, ma finchè distribuiranno i prodotti, loro o di terzi non importa, è bene sottolineare che si tratta di una consulenza in conflitto d’interessi. Ben diversa è la consulenza erogata dal Consulente Finanziario Indipendente che non svolge alcuna attività di vendita, non ha alcun rapporto con chi vende prodotti finanziari e non può ricevere alcun compenso per i prodotti consigliati. Quindi nessun conflitto d’interesse legato alle provvigioni, ma consulenza e assistenza ai clienti, nel loro esclusivo interesse. Solo questa può essere definita consulenza indipendente come già ribadito dalla Nafop, l’associazione italiana dei consulenti finanziari indipendenti: «Solo i consulenti finanziari fee only rispettano il requisito di indipendenza previsto dalla Legge; coloro che si fregiano del titolo di consulenti finanziari indipendenti ma che ricevono provvigioni sui prodotti collocati, non potranno più dichiararsi tali con la nascita dell’Albo di categoria».
Per completezza riporto l’articolo che regola i Requisiti di Indipendenza dei Consulenti Finanziari che recita così: “Per la prestazione di consulenza in materia di investimenti, gli iscritti all’Albo non possono percepire alcuna forma di beneficio da soggetti diversi dal cliente al quale è reso il servizio” (art. 5 del Decreto 206 del 24 Dicembre 2008, “Requisiti dei Consulenti Finanziari”).
Spero che questo articolo possa contribuire a sgombrare il campo da possibili equivoci in modo che il risparmiatore sia messo nella condizione di scegliere consapevolmente a chi affidare i propri interessi.
Analizzando la situazione di un risparmiatore mi sono imbattuto in un portafoglio costituito, tra gli altri, da fondi della società di gestione del risparmio Azimut SGR. In particolare vi parlo di Azimut Trend un fondo flessibile che, come indicato nel regolamento di gestione, “si propone un significativo accrescimento del valore del capitale investito e che presenta un obiettivo d’investimento di lungo periodo (3/5 anni) con un livello di rischio alto […]La SGR attua una politica di investimento di tipo dinamico e flessibile con la facoltà di azzerare la componente azionaria investendo esclusivamente in strumenti finanziari del mercato obbligazionario e monetario.”
Vediamo i costi del prodotto:
Come si evince dal rendiconto al 30/12/2009 nel corso dell’anno passato le provvigioni di incentivo sono state del 2,96% che, sommate a quelle di gestione, di banca depositaria e spese varie, hanno portato il TER (total expense ratio) alla non trascurabile cifra del 5,55%. Di seguito i valori alla base del calcolo dell’incentivo:
Ora alcune considerazioni che dovrebbero far riflettere gli investitori:
In conclusione questo meccanismo di calcolo consente al gestore di beneficiare di un premio anche quando il fondo è sotto al suo valore massimo e vanifica a mio parere il senso della provvigione che dovrebbe fungere da stimolo per fare meglio del mercato. Se infatti, ad esempio, il fondo rimanesse sempre investito in azionario il gestore percepirebbe “senza fatica” la provvigione di incentivo negli anni “toro”, dovendo battere un indice obbligazionario a breve termine e “si accontenterebbe” della sola commissione di gestione (che ricordo è del 2,50% all’anno e va ad aggiungersi all’eventuale incentivo) negli anni negativi per i mercati azionari, in barba al sottoscrittore.
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